ROBERTO GIUSSANI
photographer and journalist
V IS FOR VIRUS – red zone chronicles
a personal diary/ongoing project
ROBERTO GIUSSANI
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V IS FOR VIRUS – red zone chronicles
a personal diary/ongoing project
ROBERTO GIUSSANI
photographer and journalist
V IS FOR VIRUS – red zone chronicles
a personal diary/ongoing project
ROBERTO GIUSSANI
photographer and journalist
V IS FOR VIRUS – red zone chronicles
a personal diary/ongoing project
Bergamo, Lombardia, Northern Italy – March/April 2020
tales form the heart of the Italian COVID-19 red zone/racconti dal cuore della zona rossa (che non c’è)
Il COVID-19, il CoronaVirus, ovvero il Virus impazza.
Son giorni cupi, smarrimento e paura, le strade deserte, un silenzio instabile, surreali gli uccellini che cinguettano. Al telefono voci incerte, zero contatto fisico, mancanza rabbia frustrazione. Giorni cupi in cui un ragazzino che gioca a calcio col babbo in un parcheggio deserto mi commuove che neanche una retrospettiva sul Neorealismo, d’inverno.
Io fotografo. Racconto. Testimonio. Parole grosse di cui non son degno, ma nel frattempo tengo a bada i miei personali mostri, le mie paure. Fotografare mi assorbe la mente e la sgombra, motiva il pezzo non morboso della mia curiosità, mi permette di uscire per strada (a norma di legge) e pure mi spinge a farlo, con la mania del collezionista di immagini e il cuore sospeso. Immergermi nella amata routine di luce e composizione, camminare chilometri alla forrest gump in una città surreale, addolorata e incredula, portare a casa un’altra fotografia è un modo per mettere questo dramma in prospettiva, davanti all’obiettivo e dentro la mia testa.
red zone chronicles è niente di più e niente di meno che un diario personale, fatto di immagini personali che però sono di tutti noi, della nostra città, per chi le vuole guardare, per chi riesce a guardarle.
.
Inizio questo diario sabato 7 marzo, perchè trovo chiuso un grande distributore di attrezzatura sportiva. Fino a lì faccio finta di niente, ma quando incappo in una impensabile sbarra abbassata e constato che per i mesi a seguire dovrò usare vecchi calzini lisi e consunti, capisco che il virus è strisciato nella mia vita. Sono molto, molto fortunato: per tanti il virus entra a pugni e calci, spedendoli in rianimazione o mirando infame a affetti e amori.
Comincio a scattare con il cellulare perchè quello ho in tasca, mentre la vespa tirata sul cavalletto si spegne per eccessiva ricchezza di carburazione e le mie bestemmie per i calzini bucati si spengono nel cielo blu. Che pirla, fossero i calzini il problema. Continuo a scattare col cellulare per immediatezza, essenzialità e inappellabilità – perchè questo è un diario. Taglio quadrato, come se facessi istantanee già sbiadite con una vecchia Rollei.
E prima immersione nel vuoto. È strano fotografare l’assenza. Un fotografo si allena a cercare il soggetto, quello forte, decisivo. Non si allena a fotografare il vuoto.
Il lunedì scendo in strada e per un attimo mi sento come il primo fotografo dopo la bomba enne, quella che lascia su i palazzi e disintegra la vita. E mi vergogno, di permettermi che una fantasia quasi frivola offenda una cosa tanto drammatica. Eppure affacciandoci sul vuoto ci aggrappiamo sempre a qualcosa ed in quel momento io mi attacco a quello, all’avventuriero, il primo uomo che esce dalla caverna.
Poi incrocio un collega in caccia della ‘foto giusta’, e torno alla realtà.
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all images/tutte le immagini © Roberto Giussani
Bergamo, Lombardia, Northern Italy – March/April 2020
tales form the heart of the Italian COVID-19 red zone/racconti dal cuore della zona rossa (che non c’è)
Il COVID-19, il CoronaVirus, ovvero il Virus impazza.
Son giorni cupi, smarrimento e paura, le strade deserte, un silenzio instabile, surreali gli uccellini che cinguettano. Al telefono voci incerte, zero contatto fisico, mancanza rabbia frustrazione. Giorni cupi in cui un ragazzino che gioca a calcio col babbo in un parcheggio deserto mi commuove che neanche una retrospettiva sul Neorealismo, d’inverno.
Io fotografo. Racconto. Testimonio. Parole grosse di cui non son degno, ma nel frattempo tengo a bada i miei personali mostri, le mie paure. Fotografare mi assorbe la mente e la sgombra, motiva il pezzo non morboso della mia curiosità, mi permette di uscire per strada (a norma di legge) e pure mi spinge a farlo, con la mania del collezionista di immagini e il cuore sospeso. Immergermi nella amata routine di luce e composizione, camminare chilometri alla forrest gump in una città surreale, addolorata e incredula, portare a casa un’altra fotografia è un modo per mettere questo dramma in prospettiva, davanti all’obiettivo e dentro la mia testa.
red zone chronicles è niente di più e niente di meno che un diario personale, fatto di immagini personali che però sono di tutti noi, della nostra città, per chi le vuole guardare, per chi riesce a guardarle.
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Inizio questo diario sabato 7 marzo, perchè trovo chiuso un grande distributore di attrezzatura sportiva. Fino a lì faccio finta di niente, ma quando incappo in una impensabile sbarra abbassata e constato che per i mesi a seguire dovrò usare vecchi calzini lisi e consunti, capisco che il virus è strisciato nella mia vita. Sono molto, molto fortunato: per tanti il virus entra a pugni e calci, spedendoli in rianimazione o mirando infame a affetti e amori.
Comincio a scattare con il cellulare perchè quello ho in tasca, mentre la vespa tirata sul cavalletto si spegne per eccessiva ricchezza di carburazione e le mie bestemmie per i calzini bucati si spengono nel cielo blu. Che pirla, fossero i calzini il problema. Continuo a scattare col cellulare per immediatezza, essenzialità e inappellabilità – perchè questo è un diario. Taglio quadrato, come se facessi istantanee già sbiadite con una vecchia Rollei.
E prima immersione nel vuoto. È strano fotografare l’assenza. Un fotografo si allena a cercare il soggetto, quello forte, decisivo. Non si allena a fotografare il vuoto.
Il lunedì scendo in strada e per un attimo mi sento come il primo fotografo dopo la bomba enne, quella che lascia su i palazzi e disintegra la vita. E mi vergogno, di permettermi che una fantasia quasi frivola offenda una cosa tanto drammatica. Eppure affacciandoci sul vuoto ci aggrappiamo sempre a qualcosa ed in quel momento io mi attacco a quello, all’avventuriero, il primo uomo che esce dalla caverna.
Poi incrocio un collega in caccia della ‘foto giusta’, e torno alla realtà.
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